Processo Civile – Processo del lavoro – Condanna alle spese legali in caso di soccombenza – Art. 92 secondo comma cod. proc. civ. – Illegittimità nella parte in cui non consente la compensazione in presenza di analoghe gravi ed eccezionali ragioni – Sussiste – Illegittimità nella parte in cui non considera la posizione di debolezza del lavoratore – Non sussiste
Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma cod. proc. civ. mirante ad innestare nella disposizione censurata una ulteriore deroga alla regola della soccombenza centrata sulla natura della lite, perché controversia di lavoro, ed a favore solo del lavoratore che agisca in giudizio nei confronti del datore di lavoro.
(Massima non ufficiale)
Il giudizio di legittimità costituzionale in esame trae origine da due ordinanze di rimessione (l’una del Tribunale di Torino, l’altro del Tribunale di Reggio Emilia, entrambe in funzione di Giudice del Lavoro) con le quali si poneva in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 92 cod. proc. civ., nella sua attuale formulazione, norma che prevede, in caso di soccombenza totale, la possibilità per il giudice di compensare in tutto o in parte le spese legali, esonerando, dunque in tutto o in parte il soccombente, solo nel caso di assoluta novità della questione trattata ovvero in caso di mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti.
Le ordinanze di rimessione sollevano dubbi di costituzionalità in relazione alla mancata previsione, nella norma scrutinata, della possibilità per il giudice di disporre la compensazione, anche in caso di soccombenza, in ipotesi diverse ed ulteriori a quelle tipizzate.
In particolare la violazione è stata valutata possibile dai giudici rimettenti sia in relazione all’art. 3, primo comma Cost., sotto il profilo del principio di ragionevolezza che non consentirebbe l’esclusione di altre ipotesi, sia, soprattutto, in relazione all’art. 24, primo comma Cost. ritenendo che la riduzione delle ipotesi di compensazione soltanto a quelle tipizzate scoraggerebbe in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo e punitivo ritenuto “incongruo” nelle ipotesi in cui la condotta della parte, successivamente risultata soccombente, non integra casi di abuso del processo ma sia improntata a correttezza, prudenza e buona fede.
Il Tribunale di Reggio Emilia, inoltre, ha sollevato la questione di legittimità anche in relazione all’ulteriore profilo di violazione dell’art. 3, commi 1 e 2 Cost. e del principio di uguaglianza sostanziale ivi consacrato «che esigerebbe un trattamento differenziato, ma di vantaggio, per il soggetto più debole” nel rapporto processuale oltre che nel rapporto sostanziale dedotto in giudizio.
Tale debolezza sarebbe sommamente evidente – argomenta il Tribunale – nelle così dette «controversie a “controprova”», ovvero in quei casi nei quali incombe sul datore di lavoro l’onere di provare la legittimità della sua decisione e il lavoratore, che potrebbe aver agito senza essere in possesso di elementi di fatto nella esclusiva disponibilità del datore di lavoro, potrebbe trovarsi di fronte alla deduzione di fatti e circostanze di cui non poteva essere a conoscenza (ciò che potrebbe accadere, ad esempio, nella impugnativa del licenziamento per ragioni diverse dalla giusta causa).
La norma, con il suo contenuto tassativo, sostiene il Tribunale di Regio Emilia «esercita di fatto una gravissima limitazione del diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia in danno del lavoratore», già gravato dagli oneri economici, non detraibili, del pagamento del contributo unificato, dell’anticipazione delle spese legali e dell’IVA; limita il diritto all’effettività dell’accesso alla giustizia «in termini di pesante “deterrenza” in modo proporzionalmente (e vieppiù irragionevolmente) maggiore per quanto minore sia la capacità economica del lavoratore»; colpisce, irragionevolmente, anche la parte incolpevole che non ha «abusato» del processo o che non ha invocato diritti, «che a priori, sapeva essere inesistenti».
Con la sentenza in commento la Corte Costituzionale, accogliendo parzialmente i rilievi avanzati nelle ordinanze di rimessione, ha stabilito che la norma contenuta nell’art. 92 secondo comma del cod. proc. civ. può essere considerata costituzionalmente compatibile solo se le ipotesi ivi elencate – che consentono al giudice, in caso di soccombenza, di compensare le spese di giudizio – non siano considerate “tassative”, ma “paradigmatiche” e svolgenti una “funzione parametrica ed esplicativa” della clausola generale delle gravi ed eccezionali ragioni.
Nella stessa sentenza la Corte Costituzionale ha escluso, però, che la norma regolatrice della possibile compensazione delle spese possa essere ritenuta illegittima nella parte in cui non consente di considerare il lavoratore quale parte “debole” del rapporto controverso.
Tale ultima decisione è fondata sul formale principio della “par condicio” processuale che l’ordinamento, secondo la Corte, assicura senza dubbio alle parti processuali e che tutela in pieno il lavoratore che si rivolge al giudice.
In verità, a giudizio di chi scrive, non riconoscere l’esistenza di una oggettiva disparità di posizione economica e, talvolta, anche processuale del lavoratore costretto ad adire l’autorità giudiziaria ha come effetto quello di limitare grandemente i benefici che pure si volevano assicurare (almeno da parte dei giudici remittenti) al lavoratore soccombente in giudizio.
Ed anzi quei benefici rischia di vanificarli del tutto se non addirittura di aggravare la posizione del lavoratore che ricorre alla magistratura per vedersi riconosciuto un diritto controverso.
Può accadere, infatti, che il lavoratore esca vittorioso dalla controversia ma sia condannato comunque a sopportare, per intero ovvero in parte a secondo che la compensazione sia parziale ovvero totale, i costi del giudizio proprio a causa del riscontro da parte del giudice della esistenza di una delle ipotesi ,“allargate” dalla decisione della Corte, che consentono la compensazione.
Una conclusione che può rivelarsi davvero iniqua se al magistrato non è data la possibilità di valutare e considerare la situazione di debolezza economica e processuale, che pure è oggettiva.
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La disciplina della regolamentazione delle spese nel processo del lavoro è contenuta negli articoli 91 e 92 del codice di procedura.
Il principio generale è che, in caso di soccombenza, «il giudice, con la sentenza che chiude il processo davanti a lui, condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa» (art. 91 cod. proc. civ.).
La Corte osserva che tale statuizione è giusta. Essa risponde ad un “principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa”.
La soccombenza, però, non è una regola assoluta e la stessa Corte Costituzionale aveva avuto modo di affermare, in una risalente decisione (sentenza n. 196 del 1982) che “l’istituto della condanna del soccombente nel pagamento delle spese ha bensì carattere generale, ma non è assoluto e inderogabile”.
Rientra, infatti, nella discrezionalità del legislatore modulare l’applicazione della regola generale della soccombenza e tale discrezionalità è stata esercitata nella norma contenuta nell’art. 92 cod. proc. civ. che consente al giudice, ricorrendo le condizioni di cui al secondo comma, di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite.
La Corte, nella sentenza in esame, procede preliminarmente ad una ricostruzione storica della disposizione dell’art. 92 cod. proc. civ. partendo dal secondo comma dell’art. 370 cod. proc. civ. del 1865 che disponeva: «Quando concorrono motivi giusti, le spese possono dichiararsi compensate in tutto o in parte».
Osserva la Corte che la disposizione del vecchio codice di procedura è stata sostanzialmente ripetuta nel secondo comma dell’art. 92 cod. proc. civ. del 1940: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
Tale norma è rimasta sostanzialmente immutata per circa centocinquanta anni ed ha dato origine ad un contrasto giurisprudenziale composto dalle Sezioni Unite della Cassazione che, correggendo quella giurisprudenza che sostanzialmente riconosceva al giudice la più ampia discrezionalità nel disporre la compensazione delle spese per «giusti motivi», ha stabilito che comunque si dovesse dare conto in sentenza della relativa statuizione mediante argomenti specificamente riferiti a questa ovvero attraverso rilievi che, sebbene riguardanti la definizione del merito, si risolvano in considerazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare tale compensazione delle spese (Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 30 luglio 2008, n. 20598).
La disposizione dell’art. 92 cod. proc. civ. è stata così modificata, per la prima volta, solo con l’art. 2, comma 1, della legge 28 dicembre 2005, n. 263 che, pur confermando la clausola generale dei «giusti motivi» quale presupposto della compensazione delle spese di lite, ha richiesto che questi fossero «esplicitamente indicati nella motivazione».
La prescrizione dell’espressa indicazione dei «giusti motivi» nella motivazione della decisione del giudice sulle spese di lite non apparve però ancora sufficiente a contrastare una tendenza, esistente nella prassi, al frequente ricorso da parte del giudice alla facoltà di compensare le spese di lite anche in caso di soccombenza totale.
Il legislatore è quindi intervenuto una seconda volta con l’art. 45, comma 11, della legge 18 giugno 2009, n. 69 che ha così riformulato il secondo comma dell’art. 92: «Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti».
E’ evidente il carattere restrittivo del perimetro della clausola generale nella nuova formulazione della norma: i «giusti motivi» sono diventati le «gravi ed eccezionali ragioni», con l’evidente fine di rafforzare il principio di responsabilità di chi promuove una lite, o resiste in giudizio, e con l’ulteriore obiettivo di determinare un effetto deflativo sul contenzioso civile.
Un terzo intervento legislativo ha, infine, determinato l’attuale formulazione della norma in esame attraverso l’art. 13 comma 1 del D.L. 132/2014, convertito con modificazioni dalla Legge 162/2014.
Nel testo attuale, esplicitamente più restrittivo del precedente, la clausola generale dei “gravi ed eccezionali motivi” è stata sostituita da due ipotesi nominate e ritenute tassative:
l’assoluta novità della questione trattata
il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti
Su tale attuale formulazione si è abbattuto Il giudizio di illegittimità costituzionale della Corte che ha censurato la “rigidità di queste due sole ipotesi tassative” che,” violando il principio di ragionevolezza e di uguaglianza, ha lasciato furori altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa”.
La Corte, ha poi chiarito che l’ipotesi del “mutamento della giurisprudenza” su una questione dirimente si verifica quando “risulta modificato, in corso di causa, il quadro di riferimento della controversia” e si riferisce, prevalentemente alla giurisprudenza di legittimità, ma anche di merito. Essa si riferisce, dunque, all’ipotesi che le parti si siano trovate nella necessità di confrontarsi con un contesto giurisprudenziale che non è di certo nella loro disponibilità e che è necessario, dunque, tutelare “l’affidamento di chi abbia regolato la propria condotta processuale tenendo conto dell’orientamento poi disatteso e superato”.
La diversa ipotesi della “assoluta novità della questione trattata”, invece, si verifica quando ci si trova dinanzi “ad una situazione di oggettiva e marcata incertezza, non orientata dalla giurisprudenza”.
Ebbene, ha stabilito la Corte nella sentenza in esame, la ratio sottesa alle due ipotesi può rinvenirsi anche in altre analoghe fattispecie non tipizzate nella norma e che:
al pari del mutamento della giurisprudenza, determino un “sopravvenuto mutamento dei termini della controversia senza che nulla possa addebitarsi alle parti”, quali ad esempio una norma di interpretazione autentica o più in generale uno jus superveniens, soprattutto se tali norme sono introdotte con efficacia retroattiva; una pronuncia della stessa Corte Costituzionale; una decisione di una Corte Europea; una nuova regolamentazione dell’Unione Europea, ecc.
al pari della assoluta novità della questione, costituiscano “analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a <gravi ed eccezionali ragioni>”
Si tratta, rileva la Corte, di ipotesi illegittimamente non considerate dalla disposizione censurata, ipotesi riconducibili tutte alla clausola generale delle “gravi ed eccezionali ragioni“ e sono analoghe a quelle tipizzate nominativamente nella norma, ovvero di pari o maggiore gravità ed eccezionalità.
Sulla base di tali motivazioni, la Corte, dunque, dichiara “l’illegittimità costituzionale dell’art. 92, secondo comma cod. proc. civ. nella parte in cui non prevede che il giudice, in caso di soccombenza totale, possa non di meno compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”.
Non fondata, invece, è per la Corte Costituzionale la questione di legittimità della norma in relazione alla posizione di debolezza processuale ed economica del lavoratore che agisce giudizialmente contro il datore di lavoro.
Osserva la Corte che “Rileva in proposito (..) il generale canone della par condicio processuale previsto dal secondo comma dell’art. 111 Cost. secondo cui <ogni processo si svolge [..] tra le parti, in condizioni di parità>”.
D’altra parte, sostiene la Corte, la situazione di disparità in cui in concreto potrebbe venire a trovarsi il lavoratore, quale parte debole del rapporto, trova “un possibile equilibrio, secondo il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., in appositi istituti diretti ad assicurare ai non abbienti i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”, quali, ad esempio, quelle introdotte nel nostro ordinamento dalla legge 533/1973 della esenzione da ogni spesa o tassa (art. 10) ed il patrocinio a spese dello Stato per le parti non abbienti (art. 11).
Quanto alla questione del così detto “contenzioso a controprova” sollevata dal Tribunale di Reggio Emilia nel quale il lavoratore è costretto ad agire in giudizio “senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro”, soccorre, ritiene la Corte, l’ipotesi, “allargata” dalla Corte stessa nella sentenza in esame, della “assoluta incertezza in ordine a questioni di fatto in ipotesi riconducibili alle <gravi ed eccezionali ragioni> che consentono al giudice la compensazione delle spese”.
Per tali ragioni, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale in relazione a quest’ultimo profilo.